W LA GUERRA!!!
W LA GUERRA! MILIONI DI MORTI
MA PERCHE'?
Il ricordo dei grandi massacri del Novecento (e precedenti) risveglia la coscienza
dell'umanità. Una riflessione sul male oscuro che devasta il pianeta da millenni
LE GUERRE - GUERRE COMBATTUTE PER MOTIVI RELIGIOSI? FORSE DI CIVILTA'? DI RAZZE? MAI ! (VEDI LA GUERRA D'INDIPENDENZA AMERICANA (tra popoli fratelli) E LE TANTE GUERRE DEL NOVECENTO EUROPEO (in Italia anche tra italiani in un drammatico, oscuro e umiliante dopo 8 settembre '43).
Altro che guerre sante, nazionaliste, d'indipendenza, rivoluzioni per Liberté…Egalité…Fraternité.
Scomparsi i "defensor fidei" e le guerre religiose, sono invece oggi attuali i "defensor economicus" anche se gli statisti ci dicono candidamente (mentendo) che le fanno queste guerre solo per difendere la democrazia (quella oligarchica!? quella dei mercati, della finanza, delle materie prime, dell'oro giallo o quello nero?).
Spesso le fanno per risolvere i propri problemi: non solo quelli economici, ma anche per i dissidi interni.
Bismarck lo disse senza mezzi termini, "Facciamo la guerra contro una potenza esterna perchè questa è l'unica maniera per sedare i conflitti interni e ritrovare l'unità". E fu infatti quella guerra (contro una Francia debole) capace di determinare gli scopi per cui fu decisa: far nascere un fortissimo nazionalismo.
Vedi anche Wilson: fece votare la "crociata" per il trionfo della Democrazia in Europa nella 1ma G.M. (ma dopo 3 anni ! con l'Europa già allo stremo, col Belgio "democratico" già sommerso, la Francia "democratica" svenata, e l'inghilterra "liberista", agli estremi).
Motivo dell'intervento disse Wilson : "per i valori che sono sempre stati più cari ai nostri cuori: la democrazia"; e per "i diritti e le libertà delle piccole nazioni" (si dimenticò però di darli prima al confinante Messico che reclamava da anni agli Usa alcuni suoi territori, scippati.
Qualcuno direbbe che le guerre sono dovute alla stupidità di un singolo re, imperatore, statista. Mentre invece spesso questa stupidità perviene (quasi fosse una epidemia) in una dimensione più ampia e allora diventa stupidità sociale, che coinvolge una intera nazione.
Hitler (dopo aver trascinato l'Europa al massacro) lo definiamo oggi uno stupido paranoico, tuttavia c'erano molti intellettuali a sostenerlo, c'erano banchieri, industriali, capitalisti e c'erano anche persone intelligentissime (il filosofo Wittgestein); poi al suo personale disegno erano d'accordo 30 milioni di tedeschi, all'improvviso diventati tutti novelli invincibili "Sigfrido".
Stupido? Pensate un po' se avesse vinto quanti onori fatti alla sua intelligenza.
Intelligenti furono gli americani che vinsero?
Gli americani (trasciandosi dietro nei primi anni '40, la crisi del '29) intervennero pure nella 2nda G.M. (ma anche qui dopo 3 anni !) con l'Europa tutta già in ginocchio. Eisenhower dopo averla portata a termine con una vittoria, ed essere diventato Presidente degli Usa, titolò poi le sue "Memorie", con un bel titolo "Crociata in Europa". I Saraceni eravamo questa volta noi Europei, Italiani compresi).
Ma anche recentemente un presidente americano ha dato alla "Sua Guerra" (con tanti dubbi degli stessi americani): il nome di "Crociata contro l'impero del male". Una parola del passato molto inopportuna se rivolta al mondo musulmano (scita, sunnita, sufita), una parola più funesta di anni e anni di inutili bombardamenti a tappeto.
Ma gli Americani nel farle le guerre dicono di confidare in DIO, "In God we trust", e questo motto è stato scritto (forse non a caso!) proprio sui biglietti da UN DOLLARO. Ma anche Hitler fece scrivere lo stesso motto sui cinturoni dei suoi nazisti. Ma "Dio è con noi", era anche il motto delle "Crociate" verso gli infedeli. Infedeli che oggi, confidano in ALLAH ("Allah è grande" ed "è con noi") quando guardano il prezioso dono che ha loro elargito (i "pozzi di petrolio") e che noi dobbiamo pagare con sempre più tanti biglietti di UN DOLLARO con su scritto "In God we trust".
Dio è con tutti, perchè meravigliarsi? Dio - con tutto il suo potere - non ha voluto proprio Lui che nascessero altre religioni, altre credenze, altre rivelazioni, che hanno poi causato tante guerre?
Da quando l’Homo Sapiens ha incominciato a vivere in comunità, da quando sono state fabbricate le prime armi, le guerre hanno sempre avuto due obiettivi: ricchezza e potere.
Denaro e potere sono sempre la causa di tutte le guerre, “sante” e non.
Prima di Maometto, a nessuno era venuto in mente di giustificare le guerre in qualche modo. Nessuno aveva pensato ad attribuire alla parola guerra degli aggettivi. Nessuno aveva parlato di guerra santa, Jihad, o Crociata….
Le guerre non erano “sante” …ma si facevano lo stesso.
Erano spietate e sanguinose?
Non c’erano regole. Nessuno aveva pensato a crearle. Non aveva senso crearle.
Chi perdeva sapeva che sarebbe stato ucciso o fatto schiavo…che moglie e figli non sarebbero stati risparmiati….
Il vincitore talvolta era magnanimo, se gli conveniva! Più spesso no!
Naturalmente esistevano anche le guerre difensive (spesso senza alcun attacco; ma allora le chiamavano e le chiamano ancora "guerre preventive").
Ogni uomo adatto alle armi aveva il dovere di difendere la propria famiglia, la propria casa, la propria città. Ma come è difficile distinguere tra guerra offensiva e difensiva!
Non si difendevano gli abitanti delle città che facevano incursioni nei covi dei predoni che rubavano, uccidevano e facevano schiavi?
E non difendevano le loro famiglie anche i “barbari” stremati da carestie che assalivano i popoli ricchi che rifiutavano ogni richiesta d’aiuto?
Che cosa dicevano, agli albori della storia, i capi ai loro guerrieri per convincerli a combattere?
Non avevano bisogno di raccontare barzellette. Dicevano solo che chi combatteva per loro avrebbe avuto bottino, donne e schiavi. Di solito era più che sufficiente.
Al massimo parlavano (ipocritamente) di onore. L’onore di chi ha combattuto e ha vinto. Tutto qui.
A molti uomini piace combattere. E a tutti piace vincere. Era vero all’età della pietra, ed è vero anche adesso.
Certo il popolo che vince non si limita a depredare e imporre tributi. Li assorbe culturalmente, li trasforma in alleati per poi insieme guerreggiare e raggiungere altre vittorie.
E i vinti finiscono sempre per assorbire la cultura del vincitore.
Ma non è mai stato questo lo scopo della guerra. Caso mai una conseguenza.
Cultura e civiltà si possono diffondere anche pacificamente. Ma questo non è mai avvenuto.
E’ successo spesso, succede ancora.
Col diffondersi della civiltà alcuni capi cominciarono ad accorgersi che ricchezza e potere, talvolta, non bastavano più a convincere la gente a combattere. Anche perché di bottino, al singolo soldato, spesso toccava ben poco…talvolta niente!
Come si poteva convincere un pacifico contadino a lasciare terra, casa e famiglia solo per soddisfare le ambizioni del capetto di turno?
Se non gli si voleva dare la sua parte di bottino bisognava convincerlo in qualche altro modo.
Talvolta le minacce, per chi sa che probabilmente morirà in ogni caso, non bastano.
Non per tutti almeno.
Quando si è cominciato a pensare ad una “guerra santa”? a una guerra che fosse sentita anche da chi non aveva niente da guadagnarci? Ad un ideale che facesse muovere anche gli indecisi… che desse a loro una specie di alibi morale anche alle più grandi atrocità?
Bastava ricorrere agli Dei, per gli indecisi bastava far nascere il timore del cielo, all'Ira divina" che si sarebbe abbattuta sulla loro vita terrena. Oppure per i determinati al premio (se morti) che gli dei elargivano lro l' "Al di Là", l'Olimpo, il Paradiso, l'Empireo, la Vita Eterna.
Se andiamo a frugare nei secoli, qualche precedente lo possiamo trovare.
Facciamo qualche esempio.
- Le guerre dei Greci
Correva l’anno 1100 a.c. (circa) quando fu combattuta la guerra di Troia.
Secondo il mitico Omero (e i poeti che raccontarono la storia parecchi secoli dopo) a scatenare quella guerra era stato... il rapimento di Elena!
Assurdo naturalmente!
Per mettere insieme una coalizione di città greche il ricco bottino di Troia doveva essere più che sufficiente. Eppure la storia di Elena viene ripresa anche dalla tragedia “Ifigenia in Aulide”.
Secondo Euripide, Ifigenia avrebbe accettato di immolarsi solo per patriottismo.
I barbari non si dovevano permettere di rapire le donne dei greci!
Questa spiegazione fa’ acqua da tutte le parti!
Una guerra chiaramente offensiva veniva spacciata per una rappresaglia, una guerra difensiva!
Tuttavia a molti guerrieri achei, indecisi se affrontare una lunga guerra, per un bottino incerto… forse bastò!
Artifici di questo tipo sono stati usati spesso nei secoli successivi… si usano ancora!
Non faccio esempi: non ce n’é bisogno!
In ogni caso gli Achei non hanno mai pensato a giustificare la loro guerra con la religione.
Secondo Omero Greci e Troiani avevano gli stessi dei.
Nell’Iliade alcuni dei prendevano una netta posizione tra Greci e Troiani, arrivando addirittura a combattersi tra di loro.
Eppure i Troiani continuavano a fare sacrifici ad Era ed Athena anche quando aiutavano sfacciatamente i guerrieri Achei.
I Greci continuavano ad onorare Apollo, anche quando si era messo lui stesso a trafiggere con le sue frecce i soldati Achei, colpevoli di avere disonorato la figlia di un suo sacerdote.
Fantasie di un poeta? Naturalmente!. Ma ci fanno capire qual era l’atteggiamento dei Greci arcaici nei confronti di guerra e religione.
La mitologia greca è una favola bellissima in cui confluiscono leggende nate dopo guerre di cui si è perso il ricordo.
L’Olimpo era pieno di dei e semidei imparentati tra loro.
Alcuni di questi dei (Apollo? Afrodite?) forse erano onorati in Asia Minore prima dell’arrivo degli Achei, ed erano stati ”adottati”…
Altri dei erano stati portati dai conquistatori e assimilati ai quelli dei vinti.
Zeus probabilmente era stato portato in Grecia dagli Achei…ma non era per lui che i guerrieri combattevano.
Perchè poi dovevano combattere per un dio libertino e capriccioso?
I Greci temevano i loro dei…ma non li amavano.
Avevano addirittura paura della loro invidia…quando le cose andavano troppo bene!
Per i Greci la religione non è mai stata importante, anche quando combattevano contro i Barbari.
Barbari (cioè stranieri) , per i greci, erano anche i Persiani quando, due volte, invasero la Grecia.
I Greci vinsero, a Maratona e a Salamina, anche se inferiori in numero e mezzi.
Nessuno ha capito veramente come abbiano fatto, in pochi, e anche in disaccordo tra loro, a sbaragliare un esercito potente e ben organizzato.
Certo stavolta la loro guerra era veramente difensiva!
Forse hanno vinto solo perché erano più motivati. Non certo dai loro dei, ma da sentimenti “laici” come patria e libertà.
Le città elleniche salvarono la loro cultura, e posero le basi per la civiltà occidentale. Ma la loro religione è rimasta solo nei poemi, nei vasi dipinti, nelle sculture.
Anche contro i Cartaginesi i Greci della Sicilia lottarono per anni, con alterne vicende.
Ma non per la loro religione.
I confini culturali tra i popoli allora non erano tanto chiari.
La città siciliana di Segesta, per esempio, aveva, e conserva ancora, un tempio e un teatro greco…ma era alleata di Cartagine.
Lì vicino, a Erice, c’era il santuario, frequentatissimo, di una dea che i Greci chiamavano Afrodite e i Fenici Astarte.
Che importanza hanno i nomi?
Nei popoli antichi era molto diffusa la convinzione che gli dei di tutti i popoli fossero più o meno gli stessi: immortali, capricciosi e praticamente indifferenti ai destini degli uomini.
Non aveva senso fare una guerra per loro.
Ma allora perché gli antichi continuavano a pregare i loro dei, e fare sacrifici?
Forse per lo stesso motivo di chi oggi legge l’oroscopo sul giornale o va da una “maga” a farsi leggere le carte.
I sacerdoti greci, fenici, babilonesi, egiziani sapevano essere molto convincenti….e nel momento del bisogno non si sta a guardare tanto per il sottile!
- Le guerre d’Egitto
Molto prima dei Greci anche gli Egiziani avevano sviluppato una grande civiltà costruendo monumenti grandiosi, tutti legati alla loro religione.
Come in Grecia ogni città aveva il suo dio.
Ogni divinità aveva naturalmente i suoi sacerdoti…ma dei e sacerdoti diversi convivevano senza rompersi le scatole tra di loro.
I faraoni regnarono come sovrani assoluti (anzi come dei!) per migliaia di anni…
La prima dinastia egizia inizia intorno al 3000 a.C. !
Intorno al 1400 a.c. i faraoni erano già arrivati alla XVIII dinasta.
Gli Egiziani avevano respinto l’ennesimo popolo invasore (gli Hyksos) ed erano passati al contrattacco, conquistando buona parte della Siria.
Le scritte sui templi narrano le imprese gloriose di Thutmosis I, Thutmosis II, Thutmosis III… non per portare ai Barbari la loro religione e la loro civiltà…solo per gloria e.... soprattutto bottino.
Allora il dio più importante dell’Egitto era Ammone, dio del sole e protettore della capitale, nell’Alto Egitto, che più tardi i greci chiamarono Tebe.
Quando la capitale era Menphis, nel Basso Egitto, Tebe era solo un villaggio, e Ammone era (naturalmente!) una divinità di poco conto.
Nel Basso Egitto il dio del Sole era Ra. Ma che contano i nomi?
Quando Tebe divenne capitale i sacerdoti di Menphis e di Tebe si misero d’accordo, e si cominciò a parlare di Ammone/Ra…
Poi Ammone, e i suoi sacerdoti diventarono sempre più potenti… e prepotenti.
Anche i faraoni, onorati come dei, li temevano.
Un giorno arrivò un faraone che osò sfidarli: i posteri lo conoscono col nome di Akhnaton.
Per la prima volta la religione fu causa di una guerra, anche se “solo” una guerra civile.
Che cosa voleva veramente Akhnaton.?
Rafforzare il proprio potere contro i sacerdoti ribelli o fondare veramente una nuova religione?
Probabilmente l’uno e l’altro.
Un dio di nome Aton esisteva già prima di lui. Un piccolo dio, come tanti, legato (manco a dirlo!) al culto del sole.
Contrapporlo al troppo potente Ammone poteva essere anche una saggia mossa politica.
Akhnaton fece molto di più.
Dichiarò Aton unico vero Dio. (Monoteismo. Un curioso precedente. Vedi poi Ebrei, Cristiani, Maomettani)
Cambiò il proprio nome da Amenothep ad Akhnaton.
Spostò la capitale più a nord , lontano da Tebe, Ammone e i suoi sacerdoti.
Tutto in Egitto sembrò cambiare: anche l’arte (più libera!), anche la scrittura (meno complicata!).
Ma poi seguaci di Ammone e di Aton si affrontarono per la prima volta nella storia in nome di una religione.
Forse fu questa la prima “guerra santa”. Almeno così dicono alcuni storici.
Ma è proprio vero?
Il fatto e di quello che è successo nel regno di Akhnaton sappiamo ben poco: le nostri fonti sono le scritture e le pitture rimaste, sulle pareti e sulle tombe: le poche rimaste intatte, e quelle mal cancellate.
Il primo a usare gli scalpelli (primo gesto di intolleranza religiosa!) fu proprio Akhnaton che cominciò a cancellare il nome di Ammone dal templi di Karnak. Poi i successori di Akhnaton cercarono di cancellare tutto quello che aveva fatto scrivere lui!
Quello che è rimasto lascia stupiti gli archeologi.
La preghiera del faraone ad Aton, raffigurato come disco solare che con i suoi raggi raggiunge tutte le creature, fa pensare molto al Dio ebreo, cristiano e maomettano
Ma non siamo forse noi posteri a volere interpretare le vicende passate con la mentalità dei tempi moderni?
Sicuramente i seguaci di Ammone e di Aton combatterono tra di loro.
Forse ci fu una rivoluzione: più probabilmente fu solo una lotta di potere all’interno della corte e della casta sacerdotale.
Non sappiamo come morirono veramente Akhnaton, e la moglie Nefertiti…anche se più di un romanzo é stato scritto su quest’argomento!
La riforma religiosa, comunque, non ebbe buon fine.
Il suo successore Tutanchaton cambiò il nome in Tutanchamun, tornando alla vecchia religione. Questa “abiura” non gli impedì di essere assassinato: almeno così assicurano quelli che hanno fatto “l’autopsia” alla sua mummia .
Dopo di lui il nome stesso di Akhnaton fu (quasi) dimenticato.
Con la XIX dinastia, un nuovo faraone, Ramsete II, figlio di Ammone / Ra, potente, ma soprattutto particolarmente vanitoso, fece riempire l’Alto e il Basso Egitto dalle sue statue e da iscrizioni che vantano sue vittorie vere o presunte, sui popoli vicini.
In alcuni casi abbiamo potuto confrontare la sua versione dei fatti con quella dei suoi nemici Ittiti…e sappiamo ora che le sue vittorie erano state, come minimo, molto esagerate…
In ogni caso le guerre di Ramsete furono guerre tradizionali non “guerre sante”….a meno che non fosse proprio Ramsete II il faraone di cui in seguito parla la Bibbia, al tempo di Mosè.
E arriviamo alle guerre di ROMA.
Le guerre di Roma furono tutte “guerre laiche”, con i soliti obiettivi: ricchezza e potere.
Secondo la tradizione Roma fu fondata il 21 Aprile del 753 a.c.
Nel 146 a.c Roma distrugge Cartagine e diventa padrona del Mediterraneo.
Nello stesso anno viene distrutta anche Corinto, ultima città greca che aveva cercato di resistere.
E’ la fine dell’indipendenza della Grecia, ma non della sua cultura.
Grecia capta ferum victorem cepit.
Caso unico nella storia, il vincitore fece sua la cultura del vinto.
L’insinuarsi della cultura greca a Roma non avvenne senza resistenze…ma molto meno che a Gerusalemme.
Solo Catone il censore e pochi altri protestarono contro “la corruzione dei costumi”
Gli altri semplicemente si lasciarono corrompere…anche nel senso letterale del termine!
Dopo tutto greci e romani non erano poi tanto diversi…
I romani, agli dei, credevano un po’ di più degli Elleni…almeno all’inizio.
In ogni caso gli dei romani vennero subito assimilati a quelli greci: Zeus diventò Giove, Ares fu identificato con Marte… e così via!
I romani finirono per dare alla cultura ellenistica un importante contributo.
Nasceva la cultura ellenistico-romana, laica, progenitrice della cultura occidentale moderna.
Con numerose guerre, Roma si ingrandì ancora.
Con Pompeo verso Oriente, con Cesare verso occidente.
Tutte “guerre laiche” .
Con Ottaviano/Augusto Roma diventò, anche formalmente, un impero, che continuò ad ingrandirsi, arrivando “ai confini del mondo”
A nord dell’impero romano c’erano solo dei “barbari incivili” che poco alla volta si stavano, anch’essi, romanizzando (a conoscere il potere, i vantaggi che le guerre portavano).
A Sud c’era solo il deserto (Hic sunt liones!)
A Ovest c’era l’oceano, che i più ritenevano invalicabile.
A Oriente, a contrastare Roma restava solo il regno dei Parti, eredi dell’antico impero Persiano…ma anche alla corte del re dei Parti si parlava greco e la cultura ellenica era dominante..
Roma e i Parti combatterono lunghe guerre.
Solo Traiano riuscì a vincerli, nel 116 d.c, ed a occupare l’odierno Irak.
Poi le legioni dovettero ritirarsi. Anche i barbari del nord (appresa l'arte della guerra dai romani) cominciarono a dare problemi.
Inizia la lunga decadenza dell’Impero Romano…
In realtà l’impero cominciò a sfasciarsi dall’interno.
La cultura laica ellenistico romana non bastava più a tenerlo assieme.
Nel popolo, ma anche tra gli intellettuali, si diffondevano nuove religioni.
Dall’Oriente a Roma erano arrivati altri dei: Iside… Mitra… tutti bene accolti, da ricchi e poveri.
Anche l’ebraismo cominciò a diffondersi . Non per nuove conversioni, ma per la diaspora degli ebrei, dopo la distruzione definitiva del tempio di Gerusalemme (a seguito di un’ennesima rivolta, nel 70 d.c.).
La storia della ribellione, descritta anche nei fregi dell’arco di Tito, é stata raccontata da Giuseppe Flavio, storico ebreo filoromano, e per questo inviso a tutti gli ebrei… antichi e moderni.
Giuseppe ci ha raccontato anche la storia della fortezza di Masada, i cui difensori (appartenenti alla setta degli Zeloti) preferirono il suicidio di massa alla sottomissione a Roma…
Il suicidio é contro la morale giudaica (e cristiana)…antica e moderna.
Eppure il gesto degli Zeloti é rimasto nella memoria storica degli ebrei come esempio di lotta, di eroismo…
Altri, di altre religioni, nei secoli successivi, utilizzeranno il suicidio come mezzo di lotta…senza badare chi altri ci va di mezzo…amici o nemici, soldati o bambini…ma questa é un’altra storia.
Cristianesimo e Impero
Correva l’anno 312. L’impero romano non era più solo in decadenza: stava andando a pezzi!
Due aspiranti imperatori, Massenzio e Costantino, si combatterono alle porte di Roma, nei pressi di ponte Milvio.
Questa battaglia non era che un capitolo della lunga lotta tra i successori di Diocleziano,
La grande differenza fu che stavolta Costantino aveva fatto mettere alle sue legioni l’insegna della Croce.
IN HOC SIGNO VINCES!
Costantino vinse, e nel 313, emesse lo storico Editto di Tolleranza.
Con la fine delle persecuzioni la storia del Cristianesimo cambiò completamente.
Gli “integralisti laici” dicono che i Cristiani diventarono i persecutori.
Non é esatto! Anche volendo non avrebbero potuto!
Costantino non era cristiano, (era un adepto del Culto del Sole): si narra che si fece battezzare solo molti anni dopo, in punto di morte (ma non ci sono testimonianza. Solo quelle del suo agiografo).
Fino alla morte lui volle essere imperatori di tutti i cittadini romani, pagani e cristiani.
Costantino però aveva capito che i cristiani, anche se ancora in minoranza, erano un forza giovane, in espansione, l’unica forza che forse poteva salvare l’impero…sempre che fosse stata adeguatamente controllata.
Costantino non proclamò mai il Cristianesimo religione di stato, ma, di fatto, incoraggiò i sudditi a convertirsi. Molti lo fecero solo per opportunismo.
Oltre per l’ Editto di Tolleranza Costantino é noto anche per avere spostato la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, che, allora era solo una piccola in città in una posizione strategica sul Bosforo, al confine tra Europa e Asia.
Questa città ha poi cambiato più volte nome.
Costantino la chiamò Nova Roma, i suoi successori Costantinopoli.
Adesso, purtroppo, si chiama Istanbul…ma questo lo leggeremo in altri capitoli.!
Costantino volle anche intervenire nelle dispute tra cristiani, presiedendo lui stessi il Concilio di Nicea in cui fu discussa l’annosa questione della natura di Cristo.
Il concilio proclamò, una volta per tutte, che Cristo aveva una natura umana e una divina.
Gli Ariani, che dicevano che Cristo era solo un uomo, non accettarono le decisioni del concilio: molti andarono a diffondere il loro credo fuori dall’impero.
Così molti barbari diventarono cristiani, ma ariani!
Per i barbari questa era la dottrina più semplice…ma questa differenza ritardò non poco la loro integrazione con i latini cattolici!
Con i successori di Costantino l’impero si divise tra Impero d’Occidente e Impero d’Oriente.
L’Impero d’Oriente aveva come capitale Costantinopoli, dove gli imperatori interferivano sempre più spesso con le vicende delle chiese cristiane (per loro é stata inventata la parola “Cesaropapismo”).
Col Concilio di Nicea, le discussioni sulla natura di Cristo non erano finite, anzi…
Le cosiddette eresie si erano moltiplicate: ci fu chi disse che Cristo aveva solo la natura divina (monofisismo) , chi ipotizzava una strana via di mezzo (monotelismo).
A cercare di imporre la propria opinione non erano soli i vescovi ma anche, e soprattutto gli imperatori.
Oggi noi chiamiamo tutte queste distinzioni “bizantinismi”
Ma perchè allora erano così importanti?
Non entrerò in dettaglio su queste controversie che, tra l’altro, indebolirono la cristianità e diedero via libera all’Islam. Il punto era che la religione, nella società, era divenuta troppo importante perché gli imperatori la ignorassero.
Un “eretico” che professava una teoria non condivisa dalla maggioranza diventava socialmente pericoloso. Per Costantino che vincessero Cattolici o Ariani era indifferente: l’importante era che alla fine fossero tutti d’accordo.
Quando in Egitto, in Siria, in Armenia, sorsero chiese che predicavano dottrine diverse da quella ortodossa, gli imperatori pensarono che quelle province volessero staccarsi dall’impero.
Forse avevano ragione.
Egiziani , Siriani e Armeni quando difendevano la propria interpretazione del Cristianesimo difendevano anche la propria autonomia..
Veniamo a ROMA - Nell’anno 476 d.c. l’Impero Romano d’Occidente é travolto dai barbari (tra l’altro ariani!)
Unico punto di riferimento di tutti i cattolici restavano i vescovi di Roma, i Papi, ormai potenti.
Così a poco a poco anche i barbari impareranno il latino, diverranno cattolici, e daranno pure loro un grandecontributo alla civiltà europea….anche se (combattendo altre numerose guerre) ci vorranno secoli e secoli…
AL SUONO DEL PIFFERAIO MAGICO
di MARCO UNIA
Ai giorni nostri una persona dotata di intelletto normale, capace di riflettere sul futuro del pianeta, non può essere che pacifista. Certo, alcuni riterranno necessario combattere per impedire la prevaricazione di un popolo sull'altro, altri saranno per un pacifismo ad oltranza, "senza se e senza ma": ma nessuna si azzarderà a dire che la guerra è bella.
Eppure le cose non sono andate sempre in questo modo, non sempre si è pensato alla guerra come ad un fatto negativo.
E non c'è bisogno di andare tanto indietro nel tempo, non c'è bisogno di tornare al medioevo o all'antica Roma per trovare qualche esempio. Tra i nostri nonni, o bisnonni a seconda delle generazioni, c'è sicuramente qualcuno che è andato a combattere la prima guerra mondiale con entusiasmo e con spirito d'avventura.
Ma, a dimostrazione che il pacifismo è cosa dell'oggi, l'immagine positiva della guerra si conservò nelle coscienze di molti anche dopo la prima guerra mondiale. Nonostante la grande carneficina, nonostante l'assurdità della durata, nonostante le trincee e i gas nervini, nonostante tutto nel primo dopoguerra molti europei videro nella guerra appena terminata un fatto eroico e un momento di gloria della nazione.
Ma come si venne formando quest'immagine positiva della guerra? E, cosa ancor più difficile da capire, come poté conservarsi all'indomani di un conflitto tanto sanguinario e sconvolgente come la prima guerra mondiale?
Prima di tutto, bisogna cercare di capire cosa spinse tanti giovani europei ad arruolarsi come volontari in guerra e che cosa convinse tanti coscritti a combattere con entusiasmo. Perché la prima falsa opinione che ci si deve togliere dalla testa esaminando la questione è che la totalità degli europei sia andata a combattere perché costretta. O, peggio ancora, che abbia combattuto per abitudine secolare ad una passiva obbedienza. O perché semplicemente ignorante, dato che proprio gli intellettuali furono tra i più entusiasti e accaniti sostenitori della guerra, e molti di loro combatterono come volontari.
Per capire questa storia, bisogna allora fare un piccolo passo indietro nel tempo e tornare alle guerre rivoluzionarie dei francesi, alle campagne napoleoniche e alla guerre di liberazione tedesche, perché è in quegli anni che cambia l'immagine della guerra e soprattutto l'immagine del soldato.
Prima della rivoluzione, la carriera militare era infatti roba da aristocratici - per quanto riguardava le alte sfere - e roba da mercenari per quanto riguardava le truppe. I mercenari andavano a combattere per i soldi, senza farsi troppe domande sugli scopi della guerra. La loro motivazione era il guadagno, al massimo qualche saccheggio e qualche violenza, e portare a casa la pelle. A salvare la vita, da una parte e dall'altra degli schieramenti, si prestava abbastanza attenzione, e non c'era modo di coinvolgere in scontri troppo sanguinari questi professionisti della violenza.
Per quanto riguardava la guerra stessa, essa non riscuoteva tanto successo presso la popolazione. La guerra portava carestie, niente guadagni per i poveracci e, se proprio andava male, toccava d'ospitare soldati amici o nemici dentro la propria casa.
Alla guerra, nessuno si sognava d'andare volontario, era una guerra fatta per il re e per la sua cricca, era naturale che fosse lui a combatterla e già era un danno dover pagare tutte quelle imposte per finanziare i mercenari.
Ora se nulla potevano più le "guerre sante", e nemmeno i mercenari, bisognava inventarsi qualcosaltro. Stavano nascendo gli Stati, le Città; si stavano formando i "cittadini" e cosa c'era di meglio del "nazionalismo"?, dell'Amor di patria"? (nazionalismo popolare - ovvero essere "patriottico").
Arrivò la rivoluzione francese e tutto , quasi senza preavviso, cambiò. Anzitutto, cominciarono ad esserci dei volontari, della gente che né pagata né costretta andava a combattere la guerra in giro per l'Europa. E non si trattava di barboni o poveracci, ma di cittadini - il "citoyen" di Napoleone - e spesso erano gente colta e benestante. Quasi sempre erano gli stessi borghesi che avevano sostenuto la rivoluzione, che avevano scacciato il re e che adesso si sentivano in dovere di difendere la loro creatura dagli attacchi delle altre monarchie europee e portare anche all'estero i loro ideali di giustizia e uguaglianza. La rivoluzione era in pericolo e loro combattevano per difenderla.
L'immagine della guerra era cambiata perché era cambiato il suo scopo. I volontari (i cittadini di uno Stato) non facevano più la guerra per conto di altri - dei re o dei signori - ma per sé stessi, per difendere le istituzioni che avevano creato.
E credevano in quello che facevano, condividevano le idee per cui combattevano e ritenevano che le nuove istituzioni democratiche fossero un bene per il popolo tutto.
Ma non solo cambia l'immagine della guerra, ma anche quella del soldato. Qui non si trattava più di un rozzo violento mercenario, attaccato solo ai soldi e senza la minima dignità. Di questi, la gente aveva sdegno per non dire schifo: "niente cani, prostitute o soldati" si leggeva una volta nei locali pubblici francesi. Invece il volontario era un cittadino, un tipo per bene, anzi, uno decisamente ricco, colto, rispettato dalla società. Non era uno di quegli aristocratici che si sentivano legittimati a comandare solo perché ricchi e non era neppure un barbone male in arnese costretto a combattere.
L'immagine del soldato trasse enorme giovamento da queste nuove forze che entravano volontariamente nell'esercito. Da allora in poi i soldati iniziarono ad essere più rispettati e guardati con occhio diverso. La professione delle armi da fatto disonorevole iniziò a diventare onorata. Tra tutti, nessuno seppe sfruttare questa situazione meglio di Napoleone. Il Generale aprì le porte dell'esercito alla borghesia, aumentò gli stipendi, rese possibili gli avanzamenti di carriera fino ai massimi gradi senza preclusioni di classe: un borghese poteva diventare generale per i propri meriti acquisiti in battaglia e guadagnare bene con la sua professione.
Ma se tanto cambiò in Francia, quasi altrettanto avvenne in Germania, che nei primi dell'Ottocento era una sua rivale. Anche qui, stava nascendo il "nazionalismo", e fu importante l'azione dei cittadini-soldati volontari, alcuni dei quali erano anche poeti e scrittori. In Germania, la figura del soldato si legò a quella del "liberatore della nazione" dall'oppressione francese. Poeti come Korner e scrittori come Arndt furono volontari nelle guerre di liberazione ed esaltarono la guerra come espressione della volontà del popolo tedesco. Con le loro poesie e i loro scritti esaltavano lo spirito patriottico, accendevano il nazionalismo, incitavano i giovani a combattere una guerra di popolo e per il popolo. A differenza della Francia, la Germania combatteva però più per un re che per il popolo, dato che all'epoca regnava la monarchia e questo re dovette fare i salti mortali per conciliare il "nazionalismo popolare" con il rispetto della sua funzione. Insomma, si diceva che la guerra era fatta dal popolo per il popolo, ma doveva anche comparire da qualche parte la figura del monarca: ed infatti egli mise il proprio nome e il proprio sigillo su qualsiasi cosa - monumento o targa - che commemorasse la guerra e le battaglie sostenute per la liberazione.
Eppure, per quanto il re si sforzasse, le guerre tedesche erano vissute come battaglie di popolo e per lungo tempo la convivenza tra nazionalismo e monarchia fu davvero difficile. L'idea che fossero una manifestazione popolare era rafforzata dal cameratismo che si esprimeva nella guerra e al tempo stesso il cameratismo era un elemento decisivo per vincere la guerra. I soldati che volontariamente andavano in guerra - ma anche le reclute che sentivano di combattere per il proprio popolo - si sentivano uniti l'uno all'altro da un particolare vincolo di fedeltà. La guerra rendeva tutti uguali o comunque tutti finivano per aver bisogno dei propri compagni per sopravvivere. Questo cameratismo si sviluppò già con la rivoluzione francese, tant'è vero che nella Marsigliese che fu coniata in quegli anni si parla dei "figli delle patria": "di fronte alla madre nazione tutti i figli soldato sono eguali".
Questo mito dell'uguaglianza in guerra affascinò moltissimo gli intellettuali e in particolare quelli che sostennero la necessità della prima guerra mondiale. Nessuno più degli intellettuali avvertì quel senso di solitudine, di atomizzazione della società che fu un tratto caratteristico della società moderna dell'Ottocento e del Novecento (e che continua a tutt'oggi). Essi osservavano il mutare delle società in cui vivevano, il progressivo sfaldarsi delle comunità tradizionali, l'imporsi di una mentalità individualistica e cercarono qualche rimedio che potesse riavvicinare l'uomo all'uomo. Paradossalmente la guerra, in cui gli uomini si combattono, sembrò loro una soluzione. Nell'esercito, nei piccoli reparti uniti dalla fraternità di fronte al comune nemico sembrava esserci la risposta alla solitudine, il rimedio contro l'egoismo dilagante. Così, anche i più sensibili, e anche quelli che più amavano il loro prossimo, videro nel conflitto un'occasione per riscattare sé stessi e la società. Anche sé stessi, perché mai come allora- cioè nei primi del novecento- gli intellettuali si sentirono distanti dalla società, senza un preciso ruolo da assolvere, senza uno scopo.
Così intellettuali democratici come uno Jahier - italianissimo nonostante il nome - diedero il proprio avvallo alla guerra e sentirono di realizzare in guerra la solidarietà che era loro mancata nella vita reale. In guerra, e soprattutto nella prima guerra mondiale, tutti erano fratelli, tutti dipendevano l'uno dall'altro, o almeno così si voleva credere, per continuare a combattere e per trovare un senso a questa sanguinosa esperienza.
Ma non fu soltanto il cameratismo a spingere gli uomini alla guerra, né solo il nazionalismo, che pure tanta parte ebbe sia nelle guerre dell'Ottocento che in quelle del Novecento. Il fenomeno del volontariato di guerra e della nuova immagine della guerra sarebbe incomprensibile senza il riferimento al sentimento dello straordinario.
Nell'Ottocento lo stile di vita borghese era stava ormai diventando dominante e la società di massa, con i suoi grandi numeri e il suo anonimato era ormai alle porte. I giovani, specie quelli benestanti pur senza essere aristocratici, i borghesi insomma, iniziavano ad avvertire il peso della pressione sociale sullo loro teste e nella loro vita. Lo stile di vita borghese dell'epoca, così attento all'etichetta, all'apparire, alla rispettabilità, alle convenzioni - quello stile di cui troviamo un magnifica descrizione nell'Età dell'innocenza di Scorsese - era per molti di essi un pesante fardello da portare. E la guerra, le guerre, fornirono a molti di essi l'opportunità di evadere da quegli schemi di vita così rigidi e ad un tempo così ordinari. La guerra permetteva loro di uscire fuori dall'ordinario tran tran borghese, di provare emozioni forti, di vivere una vita eccezionale e di fare tutto questo godendo dell'approvazione della società.
La guerra era una trasgressione autorizzata, una sospensioni delle leggi ordinarie, una "festa" come la chiamerà qualcuno, come un carnevale in cui l'ordine fisso del mondo viene ribaltato e messo sottosopra. In nome della nazione e delle sue fortune i giovani potevano travestirsi da soldati e andare a dimostrare a tutti la forza e la potenza del proprio paese. E se si pensa a quanto il romanticismo facesse sentire i suoi effetti, se si pensa alla sua esaltazione delle passioni, al suo culto della nazione, si può facilmente intendere di quanti significati si impregnasse la guerra.
Questo sentimento di straordinarietà era rafforzato anche dall'azione della Chiesa, che benediva i soldati in partenza per le battaglie e li rendeva sacri agli occhi delle comunità d'appartenenza. Ma da sola la benedizione della Chiesa non sarebbe servita a nulla, troppo spesso si era parlato di crociate e si era invocato il Dio degli eserciti.
"Dio è con te" (Cristo veglia su un soldato tedesco...)
La formula giusta per esaltare i cuori era la miscela di cristianesimo popolare e di nazionalismo, proprio quello che si realizzò in Germania con le guerre di liberazione. Per i volontari tedeschi "la fede nazionale e la fede cristiana divennero una cosa sola". La Germania era per loro una nazione santa e la loro guerra era una guerra santa. Per loro la nazione era "Deutschland über alles".
Erano certi che la loro patria - ancora da costruire-rappresentasse l'incarnazione di Dio nel mondo. Il filosofo tedesco Hegel, che visse in quel periodo, era convinto che per ogni epoca storica vi fosse un popolo destinato ad incarnare lo Spirito assoluto e che nell'Ottocento quel compito spettasse di diritto alla Germania. La Germania era una sorta di popolo eletto, qualcuno disse "la nuova Israele", altri preferirono rifarsi alla Grecia del V secolo. Chi andava alla guerra era convinto di adempiere ad una missione sacra, di realizzare il suo destino e quello della sua nazione.
L'esaltazione della guerra e la sua giustificazione coinvolgeva i vivi ma anche i morti. Dopo la Rivoluzione e soprattutto dopo le guerre di liberazione tedesche, i morti in battaglia divennero dei martiri che avevano sacrificato la loro vita per la patria. Unione perfetta di nazionalismo e cristianesimo, il caduto in battaglia era un martire delle nazione e dunque era destinato ad una nuova vita. Su questo punto ebbe più fortuna la religiosità popolare della fede ufficiale: la Chiesa non si lasciava coinvolgere in questo processo di equiparazione, ma la gente spontaneamente univa le sofferenze dei soldati con quelle dei martiri e dello stesso Cristo. Iniziarono così a sorgere dei monumenti ai caduti di guerra e delle tombe che ricordassero questi eroi che avevano contribuito alla difesa della nazione. Le tombe, i cimiteri e i monumenti erano dei templi della religione civica, dove si commemorava la nascita della patria per opera dei suoi soldati. Al posto delle chiese, monumenti ai soldati che ricordassero anche alle generazioni future le loro sofferenze e fossero d'esempio per la patria.
La nazione, cioè le istituzioni che la reggevano, si impossessò di questo culto dei caduti e rese pubblica la loro morte, mettendola a suo servizio. La nazione si autorappresentava attraverso i simboli, e uno dei simboli più importanti divenne il soldato morto per la patria.
Ora qualcuno obbietterà che i grandi generali e le loro imprese furono da sempre commemorati e ricordati con archi di trionfo, colonne, statue e quant'altro: e chi faccia tale ragionamento ha senz'altro ragione. Eppure una piccola novità sul piano formale si trasformò in questo caso in un cambiamento sostanziale: a partire dalla Rivoluzione si iniziò a celebrare anche la morte del soldato comune. Non più la tomba del generale e dell'eroe, ma la tomba e il monumento per tutti i caduti, perché combattendo per la nazione si è tutti uguali e si ha uguale dignità. Nel 1796 Cambry presentò un rapporto sulle sepolture e il suo progetto prevedeva che al centro del cimitero vi fosse una piramide in cui fossero raccolte le ceneri dei grandi di Francia e di tutti quelli che avevano sacrificato la loro vita per la rivoluzione e per la patria. La morte in guerra realizzava quell'uguaglianza di status che era l'ambizione stesso del moto rivoluzionario. Si iniziava a morire da eroi e le generazioni successive videro in questi soldati degli esempi da seguire e delle persone che avevano realizzato la loro missione. Tra l'altro essi non morivano, perché rinascevano nella nazione che avevano contribuito a creare.
Nazionalismo, cameratismo, eroismo, rinascita, missione sacra, avventura, libertà: il mito della guerra, che si era venuto lentamente e frammentariamente componendo a partire dalla fine del 1700 era pronto per essere raccolto dalla "generazione del 1914" . Con la prima guerra mondiale, il mito raggiunse la sua apoteosi e il culto dei caduti dominò a lungo nel primo dopoguerra, influenzando la politica e le coscienze.
Tutto ciò che era stato detto e pensato e fatto in passato per celebrare la guerra fu messo a servizio della propaganda bellica; ma non bisogna dimenticare che anche molti nuovi elementi giunsero in quegli anni ad accrescere la popolarità della guerra.
Di nuovo c'era ad esempio la coscienza di sé della gioventù, che si era formata sul finire del secolo con lo sviluppo della modernità. L'essere giovani aveva acquisito un senso nuovo per le generazioni degli inizi del novecento, che si sentivano diverse e distanti dai loro padri e dai loro nonni come mai in passato. I giovani identificavano sé stessi con la modernità e con tutto ciò che era espressione della modernità: tecnologie e novità d'ogni sorta.
Alcune delle più vivaci correnti di pensiero dell'epoca esaltavano la gioventù ed erano guidate da giovani: si pensi ai futuristi di Marinetti e agli espressionisti tedeschi. La gioventù si immedesimava nella modernità e la modernità era la nuova velocità delle macchine e del mondo. Tutto ciò che cambiava, tutto ciò che correva apparteneva ai giovani e nulla poteva rappresentare meglio il cambiamento della guerra, con le sue macchine e i suoi stravolgimenti. Marinetti ebbe il coraggio d'esaltare la mitragliatrice nei suoi poemetti sulla guerra di Libia, perché la mitragliatrice era la macchina bellica della nuova era: la famigerata mitragliatrice che falcidiò a migliaia gli uomini nelle trincee della prima guerra mondiale.
Per i futuristi e per tanti giovani non solo italiani che da essi vennero influenzati, la guerra divenne "la solo igiene del mondo", l'unico modo per spazzare via tutto ciò che di vecchio, di ipocrita, di paludato vi era nella società. La guerra serviva ad uno scopo, al rinnovamento individuale e della nazione. I futuristi sostenevano che quest'esplosione di violenza avrebbe creato un uomo nuovo, vivo, avventuroso, sempre disposto al cambiamento, l'esatto opposto del compiaciuto e tranquillo uomo borghese ansioso solo di tranquillità e benessere.
L'uomo nuovo che si ipotizzava potesse sorgere con e dalla guerra era poi soprattutto un uomo virile. La virilità fu l'ideale più seguito dai giovani della generazione del 1914. Essere virili significava essere coraggiosi, forti, capaci di dominare le proprie passioni, diventare cioè come quegli eroi della grecità che si studiavano sulla pagine dei libri di scuola. Accanto al mito del moderno conviveva il mito di una Grecia di perfezione e bellezza ed ambedue le mitologie fornivano simboli che alimentavano la passione per il conflitto. Un ragazzo poteva facilmente scorgere nella guerra, nella lotta, il terreno dove misurare la propria virilità e dar prova del suo coraggio. La guerra era il luogo dove dar prova di sé, era la cerimonia d'iniziazione, era "la grande occasione" che non ci si doveva lasciare sfuggire.
Ma la guerra di massa, la guerra tecnologica non era il banco di prova di nessun eroismo e di nessun coraggio, tranne rare eccezioni. La prima guerra mondiale fu un conflitto anonimo di carne da macello, di uomini fantocci mandati a morire di fronte al fuoco di una mitragliatrice, fu una guerra dove vita o morte erano determinate dallo scoppio più o meno vicino di un proiettile d'artiglieria. Per questo, dopo pochi mesi dall'avvio, la realtà della guerra venne occultata e la propaganda dispiegò la sua potenza ingannatrice. La guerra venne presentata per tutti gli anni del conflitto come sfida tra uomini e come luogo dove regnava la cavalleria e il coraggio, mentre chi era al fronte non sperimentava altro che non senso e assurdo a volte fino ad impazzirne. Ma prima che la guerra scoppiasse, i ragazzi della generazione del 1914 videro il conflitto come la palestra ideale dove finalmente poter sfogare le loro energie e le loro forze e dove rigenerare sé stessi e la nazione.
L'idea che si dovesse rigenerare la nazione oltre che lo spirito dell'individuo ebbe un peso notevole nel suscitare l'entusiasmo verso il conflitto di molti giovani europei. Chi era conservatore ed era spaventato dalla crescita dei partiti di sinistra e dal movimento operaio, riteneva utile il conflitto per porre fine a queste tendenze sovversive dell'ordine costituito.l
La guerra avrebbe unito contro il comune nemico l'intero popolo e avrebbe posto termine alle lotte di classe. In Italia Corradini sostenne che il contrasto non doveva essere tra classi ricche e classi povere, ma tra nazioni imperialiste e nazioni proletarie e che perciò era necessario proiettare verso l'esterno la propria aggressività, contro i nemici comuni. Altri sostennero che la guerra era necessaria perché avrebbe portato la democrazia: alla fine del conflitto il popolo avrebbe acquisito coscienza della propria forza e avrebbe costruito una società migliore e aperta a tutti. Altri, come gli anarchici, videro nella guerra un'occasione per fare la rivoluzione e porre fine allo Stato liberale. Tutti, da qualsiasi schieramento provenissero, criticavano le istituzioni vigenti, che sentivano come inadeguate, e tutti avevano un idea della guerra come sovvertitrice del mondo. Su come sarebbero cambiate le cose ognuno aveva una speranza e un'idea diversa, ma tutti concordavano nel vedere nella guerra la grande occasione di svolta alla vita della nazione. Il bagno nel sangue avrebbe ridato vita all'esangue stato borghese di fine ottocento.
Tuttavia la prima guerra mondiale mise a dura prova l'entusiasmo di chi era partito e dei famigliari e degli amici che lo avevano salutato con l'ammirazione negli occhi. Appena arrivati al fronte questi ragazzi scoprirono con sorpresa che il nemico rispondeva al fuoco e nel giro di pochi mesi chi era sopravvissuto si rese conto che sarebbe stata una guerra lunga e logorante.
A guerra iniziata l'opinione pubblica cominciò ad avere dei tentennamenti e divenne necessario rafforzare l'immagine positiva della guerra, perché era necessario far combattere i soldati, convincerne altri a partire senza fare storie e tener buone le famiglie che aspettavano nelle retrovie.
Con tutti quei morti che si accumulavano nelle trincee, con la vittoria che per tutti i contendenti diventava un miraggio, l'immagine della guerra e con essa quella della nazione che l'aveva voluta rischiava di andare in pezzi: bisogna fare qualcosa per ravvivare il mito.
Così ebbe inizio la vera e propria falsificazione della guerra, la trasformazione della cruda realtà in un mito carico di simbologie e di richiami. Se prima tutto ciò era avvenuto in parte spontaneamente e in parte con precisa intenzione mistificatoria, ora la volontarietà dell'inganno si fece più marcata.
Ad esempio, nel novembre del 1914 i gli alti gradi dell'esercito tedesco lavorarono parecchio di fantasia nel ricostruire gli eventi della battaglia di Langemarck. Secondo loro i giovani volontari tedeschi erano andati all'attacco delle trincee nemiche e le avevano conquistate cantando "Deutschland über alles". Non era possibile immaginare nulla di più patriottico: i giovani volontari che pieni di coraggio compiono la loro missione eroica, realizzano sé stessi come avevano sognato, sconfiggono il nemico cantando a pieni polmoni l'inno della patria. Bello, ma falso.
Anzitutto, la battaglia non era stata combattuta a Langemarck ma lì vicino, in un posto che però non aveva quel bel suono tedesco. Poi, nessuno aveva conquistato un bel niente, perché si sa che con il sistema delle trincee conquisti una linea e te ne trovi subito un'altra a pochi metri; e ragionevolmente nessuno aveva cantato inni patriottici, un po' per non farsi sparare addosso nella nebbia e un po' perché quando si va all'attacco con il cuore in gola non è che il fiato esca così bene.
Eppure questa battaglia entrò nella mitologia popolare come l'episodio esemplare del coraggio e dello spirito di sacrificio della gioventù tedesca, divenne la conferma di quei sogni che si erano sognati prima dell'inizio del conflitto. E questo mito durò a lungo anche dopo la guerra, perché ancora nel 1932 si tenevano discorsi in cui si ricordavano i giovani caduti e li si presentava come modello per la gioventù tedesca, nella speranza che lo spirito dei morti potesse riaccendere quel coraggio che era andato perduto nel dopoguerra.
I caduti in guerra e soprattutto i giovani erano presentati come martiri della nazione e questo era un modo perfetto per distrarre l'attenzione dalla realtà della carneficina. L'idea del martire era già stata usata in passato, ma mai come nella prima guerra mondiale il soldato venne paragonato a Cristo: entrambi compivano la loro Passione in terra per poi risorgere in cielo. Dato che si ragionava sempre a cose fatte, gli stessi famigliari finirono per aggrapparsi a questi miti e per trasmetterli nella società: i genitori che perdevano un figlio preferivano pensarlo come eroe destinato alla risurrezione che come un poveraccio usato come carne da macello da qualche generale idiota. La propaganda lavoro davvero di fino su questo tema, il Cristo che prende tra le sue braccia il soldato caduto o il Cristo in visita alla tomba del soldato divenne un immagine ricorrente nelle cartoline di guerra da e per il fronte: soldati e parenti rafforzavano vicendevolmente il mito del sacrificio e della risurrezione.
Dato il numero incredibilmente alto di morti accumulati durante il conflitto, una delle priorità divenne quella di riuscire a trovare una sistemazione per i caduti tale da non generare sconforto nella popolazione e tale da perpetuare il mito del loro sacrificio. Se nelle battaglie precedenti i caduti erano stati abbandonati sui campi di battaglia o semplicemente seppelliti nel più vicino camposanto di una chiesa, con la prima guerra mondiale si iniziarono a costruire appositi cimiteri militari per raccogliere le loro spoglie. Non si trattava di una semplice ragione logistica o determinata dalla quantità dei decessi: in realtà si stavano creando dei templi dove officiare il culto dei caduti. Come un tempo vennero costruite chiese per celebrare Cristo e per praticare il culto cattolico, così ora venivano costruite tombe ai caduti per celebrare la liturgia della religione civica: la preghiera ai caduti e il pellegrinaggio alle loro tombe divennero nel dopoguerra parte integrante della liturgia del nazionalismo.
In quanto templi di una religione , i cimiteri militari avevano alcune caratteristiche particolari, che li distinguevano da quelli civili. Tra queste la più importante in assoluto era l'uniformità delle tombe e delle lapidi. La guerra affratellava gli uomini, li rendeva uguali nel loro comune sacrifico per la nazione e quest'unione doveva manifestarsi anche nei cimiteri. Ogni singolo soldato in quanto sacro e unico doveva essere ricordato con il suo nome, ma ogni differenza di grado e di classe doveva essere annullata di fronte al sacrifico per la patria: per la madre nazione non c'era differenza tra i suoi figli. Oltre ad avere tombe uguali, o un'unica fossa comune e una lapide con i nomi di tutti i caduti, i cimiteri militari avevano alcuni simboli particolari.
In quelli inglesi ad esempio era posta al centro una Croce del Sacrificio e una Pietra della Rimembranza. La grande croce aveva al suo interno una spada, come a significare l'unione tra il combattimento e la risurrezione, mentre la Pietra della rimembranza recava l'iscrizione "il loro nome vive per l'eternità". La pietra della rimembranza nei cimiteri militari inglesi era un grande masso squadrato a forma di altare, qualcosa che richiamava alla mente gli altari del culto cristiano ma anche la solidità e la compattezza della nazione.
I cimiteri di guerra tedeschi non si differenziavano nella sostanza da quelli inglesi, ma avevano alcune loro specificità che vale la pena di esaminare. In primo luogo, i tedeschi erano molto severi in fatto di uniformità, non ci doveva essere la minima differenza tra tombe e per questo preferivano le tombe comuni: queste davano maggiormente l'idea che gli uomini fossero tutti morti per la nazione e che tutti insieme dovessero venire ricordati. Un esempio particolare di cimitero tedesco era il Totenburg, la cosiddetta fortezza dei morti. Questi cimiteri avevano appunto l'aspetto di una fortezza militare costruita con mura massicce che circondavano uno spazio aperto al cui centro c'era una roccia o un altare patriottico, mentre i nomi dei caduti erano iscritti lungo le pareti. Questi cimiteri rappresentavano in forma simbolica il predominio della nazione sull'individuo e avevano un aspetto più aggressivo rispetto ai tradizionali cimiteri di guerra. I tedeschi progettarono poi un'altra forma di cimitero, o meglio, qualcosa che stava a metà tra il cimitero e il monumento ai caduti: l' Heldenhain.
Il bosco degli eroi - heldenhain in tedesco - è un cimitero dei caduti senza tombe, al cui posto sono piantati alberi che simboleggiano i soldati morti in combattimento. Anche in questo particolarissimo cimitero-monumento riemerge il tema della rinascita, ma questa volta sotto forma di religiosità panteistica. Gli alberi sono i caduti, il loro inverno è la morte in battaglia degli eroi, la loro fioritura primaverile è la rinascita dei martiri della nazione. E gli alberi, disposti a semicerchio intorno ad un masso che rappresentava la solidità della nazione, erano spesso querce, albero tipico della Germania, "albero dalle solide radici, simboleggiante l'individuo e la comunità". I parchi degli eroi ebbero molta fortuna in Germania e anche in Italia, dove presero il nome di parchi della rimembranza e iniziarono a diffondersi nei primi anni venti.
Tutti questi cimiteri militari divennero templi della religione nazionale e dopo la guerra furono mete di intensi pellegrinaggi, che spesso erano organizzati e offerti dalle stesse istituzioni per rafforzare il culto della patria. Ma questi cimiteri si trovavano molto spesso nei luoghi della battaglia ed erano perciò dispersi dentro e fuori il territorio nazionale. Nel dopoguerra, quando l'esigenza di giustificare la guerra si fece sentire in maniera ancora più potente, si iniziò ad avvertire la necessità di un tempio nazionale dove poter celebrare e commemorare il culto dei caduti. Fu per questa ragione che in tutte le nazioni belligeranti venne eretta una tomba al Milite Ignoto, anche se i primi a costruirla furono francesi e inglesi.
Più che la costruzione della tomba, fu la liturgia della sepoltura a concentrare su di sé il simbolismo della nazione e dei caduti. Già nella scelta di dedicare la tomba al soldato ignoto era all'opera il mito della guerra combattuta per la nazione, e quell'uguaglianza di status riservata ai martiri della patria. Non si voleva celebrare un singolo gesto eroico e neppure l'eroismo ma la fedele obbedienza di tutti i caduti alla propria nazione: la salma da tumulare venne scelta casualmente all'interno di un gruppo di cadaveri di soldati caduti in battaglia. Chi sceglieva - in Francia fu un invalido di guerra, in Inghilterra un ufficiale - non doveva sapere a chi appartenesse il corpo, perché ciò che contava era anche l'anonimato del morire per la patria. Una volta scelta, la salma veniva trasportata con tutti gli onori in patria e tumulata nel più importante monumento nazionale. Si voleva dare un luogo di culto ai caduti all'interno della nazione e un luogo dove potessero essere celebrate le cerimonie nazionali; al tempo stesso si voleva per l'ennesima volta accordare il sentimento di pietà verso i caduti in battaglia con il sentimento patriottico.
La Francia tumulò il proprio milite sotto l'Arco di Trionfo, massimo simbolo nazionale fatto costruire da Napoleone per celebrare il suo esercito: il sacrificio compiuto in guerra rappresentava un proseguimento della gloriosa storia della nazione francese.
In Inghilterra la salma del milite venne invece sepolta nell'Abbazia di Westminster nello stesso giorno in cui la Francia tumulava il proprio milite. Ma in Inghilterra l'Abbazia non era il luogo adatto dove compiere delle commemorazioni in grande stile, cosa che invece era prevista dalla religione civile. Per questo motivo nello stesso giorno in cui venne sepolto il Milite venne inaugurato il Cenotafio - che in greco significa tomba vuota- che doveva essere il monumento ai caduti presso il quale festeggiare la ricorrenza della vittoria.
Nel 1920 anche l'Italia celebrò il Milite Ignoto e la salma del soldato venne sepolta nel Vittoriano a Roma, costruito per commemorare l'Unità d'Italia, a simboleggiare ancora una volta l'unione tra patria e guerra.
Queste cerimonie, così come l'incessante costruzione di monumenti ai caduti negli anni del dopoguerra riuscirono in quella incredibile trasformazione della realtà che fece di una guerra sanguinaria una vicenda eroica e carica di significati patriottici.
MARCO UNIA
BIBLIOGRAFIA Le Guerre Mondiali, di G. Mosse, Roma-Bari, 2002
La grande Guerra, di Leoni e Zadra, Bologna 1986
La Grande Guerra e la memoria moderna, di P.Fussell, Bologna 2000
Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente)
il direttore Gianola di Storia in Network
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MA NON FU SUFFICIENTE LA "PRIMA"
SI DISSE "GRAZIE" ANCHE ALLA SECONDA
Gli studenti dell'Università di padova
dicono "GRAZIE"
"combatterò come il Duce comanda: lo giuro !!!
MOLTI SI AGGIUNSERO AI PRIMI